Premessa
Con sentenza n. 570/2023, la IV sezione penale della Corte di Cassazione ha annullato con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione, la sentenza della Corte di appello di Milano pronunciata il 04/11/2021 – in relazione all’illecito amministrativo di cui all’art. 25-septies, co. 3, d.lgs. n. 231/2001, per il reato presupposto di omicidio colposo dovuto all’inosservanza di norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, attribuibile all’amministratore unico della società, in quanto commesso nel vantaggio così come individuato nel capo di imputazione – poiché priva di una reale motivazione in ordine alla concreta esistenza di una colpa di organizzazione dell’ente e della relativa incidenza causale della stessa rispetto alla verificazione del reato presupposto.
La sentenza viene censurata sotto molteplici profili dal Collegio.
In primis, stabilisce la Suprema Corte, la sentenza non consentirebbe di evincere con chiarezza il reale profilo di responsabilità addebitato alla Società ai sensi della disciplina del d.lgs. n. 231/01, in relazione ai “modelli di organizzazione e di gestione” ex art. 6 e 7 del d.lgs. n. 231/2001, la cui efficace adozione consente all’ente di non rispondere dell’illecito ma la cui mancanza non può comportare un automatico addebito di responsabilità.
Elementi strutturali
Per meglio chiarire questo aspetto, la Corte di Cassazione ripercorre l’orientamento giurisprudenziale dominante in base al quale, per poter ritenere sussistente il fatto illecito nella sua imputazione oggettiva, è necessario che la commissione del reato presupposto sia funzionale a uno specifico interesse o vantaggio a favore dell’ente stesso. Trattasi di concetti distinti e alternativi poiché l’interesse sottende una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante; il vantaggio, invece, esprime una valenza oggettiva e va accertato ex post.
La sentenza ribadisce che elemento principale per la configurabilità della responsabilità dell’ente è la commissione di un reato presupposto nell’ambito di una relazione funzionale tra reo ed ente e di una relazione teleologica tra reato ed ente. Si sofferma, poi, sulla necessità che sussista la c.d. colpa di organizzazione dell’ente, ovverosia la mancata predisposizione di misure preventive idonee a evitare la commissione di reati del tipo di quello realizzato. Sul punto, la Corte evidenzia come l’onere probatorio di tale lacuna organizzativa sia a carico dell’accusa, che dovrà dimostrare l’esistenza e l’accertamento dell’illecito penale commesso nell’interesse dell’ente dalla persona fisica inserita nella compagine sociale, individuando conseguentemente il collegamento teleologico tra azione e interesse e gli elementi indicativi della colpa di organizzazione dell’ente.
La colpa di organizzazione
La Corte, nella pronuncia oggetto di disamina, valorizza il requisito della colpa di organizzazione dell’ente, evidenziando come la stessa assolva la medesima funzione che la colpa assume nel reato commesso dalla persona fisica, quale elemento costitutivo del fatto tipico, integrato dalla violazione colpevole e, quindi, rimproverabile della regola cautelare. Osserva, pertanto, come la mancata adozione e l’inefficace attuazione degli specifici modelli di organizzazione e di gestione individuati dal legislatore agli artt. 6 e 7 del d.lgs. n. 231/2001 e all’art. 30 del d.lgs. n. 81/2008 non possano assurgere tout court a elemento costitutivo della tipicità dell’illecito dell’ente ma rappresentino unicamente una circostanza volta a ritenere sussistente la colpa di organizzazione che, però, spetta all’accusa dimostrare e la cui assenza può, al contrario, essere dimostrata dall’ente.
Ciò, evidentemente, comporta che l’assenza del modello, la sua inidoneità o la sua inefficace attuazione non siano di per sé elementi costitutivi dell’illecito dell’ente.
Tanto premesso, il Collegio censura la pronuncia della Corte di Appello di Milano poiché il capo di imputazione della stessa si limiterebbe ad addebitare all’ente un mero vantaggio (derivante da un risparmio di spesa), senza tuttavia precisare il contenuto della colpa di organizzazione da cui sarebbe derivato il reato presupposto, quale elemento distinto dalla colpa riconducibile al soggetto apicale cui è ascritto il reato.
Secondo la Corte, cioè, i Giudici di merito, individuano la responsabilità amministrativa della Società sulla base di una <<genericità ed inadeguatezza del modello organizzativo>> senza, però, dimostrare concretamente l’esistenza di una colpa di organizzazione dell’ente.
Nello specifico, l’elemento fondamentale per poter ravvisare la tipicità dell’illecito amministrativo imputabile all’ente è costituito dall’elemento finalistico della condotta dell’agente, quale conseguenza non di un atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica bensì di un preciso apparato organizzativo negligente dell’impresa, normativamente inteso. Conseguentemente, l’imputazione dell’illecito al soggetto collettivo può aversi unicamente laddove siano adeguatamente dimostrate le carenze organizzative idonee a prevenire i reati previsti dal d.lgs. n. 231/01, in quanto volte a determinare le condizioni di verificazione del reato presupposto.
Per tale ragione, conclude la Corte, è assolutamente imprescindibile che la suddetta colpa di organizzazione sia provata e non vada confusa o sovrapposta con la colpevolezza del soggetto fisico responsabile del reato.
Conclusione
La pronuncia in esame ci consente di ripercorrere i tratti distintivi della responsabilità dell’ente che, sebbene siano oramai pacificamente consolidati nella giurisprudenza dominante continuano, tuttavia, a ingenerare difficoltà pratiche da parte dei giudici di merito. Da un lato la complessità della materia, dovuta all’elevato livello di tecnicismo ontologicamente connesso alla prevenzione di infortuni sul lavoro e dall’altro il rischio di confusione tra profili di responsabilità da reato dell’amministratore/datore di lavoro da quelli propri da illecito amministrativo dell’ente suggeriscono, pertanto, un approccio quanto più prudente e approfondito possibile alla materia in modo da evitare che lo sforzo di assicurare tutela ai delicati interessi protetti dalla normativa di cui al d.lgs. n. 231/01, continuamente al centro di attenzione e aggiornamento, sia vanificato a livello pratico e si traduca, di fatto, in uno strumento dall’utilizzo difficoltoso e inidoneo a raggiungere concretamente gli obiettivi prefissati dal legislatore.